Sto da qualche tempo leggendo il libro di John Berger “Capire una fotografia”. Non è sempre facile e in certi passi non è del tutto condivisibile, ma presenta parecchi stimoli e una metodica che cerca di andare oltre la sola lettura dell’immagine, per arrivare ad una sua più profonda comprensione e giustificazione.

Sulla copertina si legge un breve pensiero estratto dal testo, che è la chiave di lettura dell’opera: “Perché complicare a tal punto un’esperienza che facciamo più volte ogni giorno: l’esperienza di guardare una foto?
Perché l’ingenuità con cui di solito la affrontiamo è dispendiosa e disorientante.
Pensiamo alle fotografie come a opere d’arte, come prova di una particolare verità, come simulacri, come nuovi oggetti.
Di fatto ogni fotografia è un mezzo per verificare, confermare e costruire una visione totale della realtà”.
I milioni di fotografie che ogni giorno vengono pubblicati o messi in rete, di fatto rischiano di essere effettivamente solo degli oggetti, dei soprammobili, che siamo ormai abituati a vedere distrattamente, nei tempi veloci che ci concede la quotidianità, che non creano più curiosità e tanto meno lasciano in noi quella traccia, quel messaggio, quel ricordo particolare che il fotogafo ha ricercato e registrato al momento dello scatto.

Viene quindi spontanea la domanda: ma noi fotografi, affrontiamo questa duplice esperienza di guardare e produrre fotografie con la necessaria attenzione e consapevolezza?

Trovo una possibile risposta in un altro capitolo del libro: “quando riteniamo che una fotografia sia significativa, è perché le prestiamo un passato e un futuro”

Di fatto questa risposta corrisponde ad un programma di lavoro molto impegnativo, che investe la nostra responsabilità di comunicatori, di “portatori di un messaggio”: messaggio che può essere individuato nella bellezza estetica, nel contenuto importante, nella novità della proposta, nella forma della presentazione, nell’accostamento ad altri media… perché la fotografia sia “viva” sempre e quindi, a fronte di un suo passato già consolidato, sia interessante nel presente e possa continuare ad interrogarci nel futuro.

Pubblico a corredo di queste considerazioni una mia fotografia, a titolo di semplice esempio: l’autore di un’immagine è infatti il solo che possa dare motivazioni certe e informazioni sincere sulla natura della sua opera, poi ciascuno potrà affiancarvi le proprie personali considerazioni e/o critiche.

Ho scattato questa fotografia in una mattina di sole autunnale, dopo una notte di leggera pioggia: mi avevano colpito in prima battuta le gocce di acqua sul cofano di un’automobile bianca, disegnate da una luce radente che conferiva loro volume e brillantezza. Una situazione gradevole ma molto comune, che tuttavia ad un’ulteriore lettura non mi soddisfaceva, mancava di un vero e proprio “soggetto” che completasse la composizione e polarizzasse l’attenzione.

Ho quindi inserito sulla scena una delle tante foglie che erano lì a terra, cercando di posizionarla in modo naturale, e soprattutto cercando di creare un’ombra ben proporzionata, che interagisse appropriatamente alla narrazione di quel momento (breve ma intenso, tutto mio) e potesse trasmetterne un sentimento, quindi qualcosa di più di un compiacimento visivo. E questo anche attraverso il colore, che contrastava con l’uniformità dello sfondo, attraverso il gioco di geometrie spigolose che contrastavano con quelle tonde delle gocce, nell’unica posizione “libera” dell’inquadratura, (in quella di destra, la piega della lamiera completa la struttura senza essere invadente e conferendo dinamicità).
Solo dopo, in un terzo tempo, ho preso coscienza del particolare disegno che l’ombra della foglia aveva creato: un diavoletto danzante?
…di certo ora il vero soggetto da ricercare!

(Articolo pubblicato sul Notiziario AV n° 70, edito dal DiAFDipartimento Audiovisivi FIAF)