Quella dei concorsi fotografici è sempre stata – e rimane – una palestra molto utile per la propria crescita personale ed artistica.

Personale, perché se è vero che “l’importante è partecipare”, è altrettanto vero che nel momento in cui si vince, si esce dalla “normalità”, dalla banalità (senza voler necessariamente conferire a questo termine un’accezione negativa…), si testimoniano le proprie abilità e qualità e si ha l’importante occasione per comunicare (fare comune) il proprio pensiero, la propria sensibilità, andando ben oltre il solo valore estetico/figurativo (pure importante), per evidenziare invece una propria proposta, che potrà essere più o meno ricca di contenuti, secondo il nostro grado di preparazione e secondo la nostra consapevolezza etico/sociale.
Come a dire che abbiamo a disposizione spazi infiniti per “dire la nostra”, ma in mezzo a tante insulsaggini e falsità conformistiche è opportuno allenarsi bene e coltivare a fondo la propria originalità e le proprie motivazioni esistenziali.

Artistica perché è evidente – oggi più che mai – che tutti possono fare fotografia, ma pochi sanno sviluppare un proprio stile, che non deve necessariamente giocare sulla “diversità” dagli altri, quanto poter costituire ancora momento di “curiosità”, occasione per fermare il nostro sguardo frettoloso e vorace (soprattutto di immagini), lasciandone un piacere, una soddisfazione, un sentimento di ringraziamento verso chi “si è preso cura” di quell’attimo apparentemente insignificante o nascosto alla nostra vista superficiale.

All’ultima edizione di DiaSottoLeStelle a Busto Arsizio, c’era – tra le altre proposte – la possibilità di mettere a confronto diretto due diversi approcci fotografici, dettati probabilmente sia dall’età anagrafica dei due autori, che dalla loro naturale sensibilità ma forse anche dalla necessità di “emergere”, di essere testimone attivo ciascuno del proprio tempo.

I due autori erano rispettivamente l’italiano Gianni Berengo Gardin, con una antologica in bianco e nero, e l’inglese Katie “KT” Allen, con stampe a colori molto rielaborate in post produzione (Photoshop).

Due stili ben diversi tra loro, che necessariamente ti interrogano e – posti logisticamente così vicini – ti invitano (quasi ti costringono) a decidere con chi stare, anche facendo leva sul proprio stato d’animo del momento.

Gardin ti ambienta in un bianco e nero positivo, caldo, in cui i valori del sentimento non hanno bisogno di cromie esasperate per raccontare e creare poesia ma – al contrario – la grande estensione tonale di bianchi-grigi-neri ti accoglie in un abbraccio familiare, ti invita alla sosta e alla condivisione di momenti “veri” pur nella loro semplicità formale/compositiva e nella realtà del loro reportage.
È stata per me una favorevole riscoperta, di un autore che non ho mai particolarmente apprezzato.

La Allen viceversa, mette in campo ogni sua risorsa e capacità compositiva e tecnica – direi drammaturgica – per liberare le sue “spesso solitarie e tristi emozioni” (cit. dalla sua presentazione), con una pignoleria e ricerca spasmodica di dettaglio, di contrasto, di cromie fredde spalmate su soggetti inquietanti ambientati coreograficamente – in post produzione – in paesaggi altrettanto ricercati e angoscianti.

Risulta evidente che in questo continuo dialogo abbiamo una duplice responsabilità.

Come fotografi possiamo condizionare molto l’immaginario, la formazione (a tratti anche l’umore) e l’informazione collettiva attraverso le nostre immagini. Da qui la necessità di una nostra dichiarata onestà di intenti: sia che vogliamo solamente stupire, sia che vogliamo raccontare e testimoniare fedelmente un’avvenimento.
Questa onestà costituirà poi il nostro “stile”, la nostra capacità di filtrare le diverse occasioni mantenendo coerenza operativa e sincerità comunicativa.
Diceva Ernst Haas, fotografo austriaco (1921-1986): “(…con le mie immagini) non cerco di compiacere il pubblico soddisfacendone il gusto, preferisco costringerlo a pensare quello che io ho pensato e a provare quello che io ho provato…” E ancora: “Non mi interessa scattare foto di cose nuove, ma mi interessa vedere le cose in modo nuovo”.

Come “lettori” dobbiamo essere il più possibile aperti, accoglienti nell’approccio alle proposte di altri autori, cercando – per quanto possibile – di documentarci per conoscerli meglio e poter comprendere appropriatamente il loro pensiero; dobbiamo altresì essere anche preparati tecnicamente per essere in grado di capire ed apprezzarne le modalità espressive.

E questa preparazione non è fatta solo di studio, ma anche – soprattutto – di esercizio fotografico pratico.

Ne nasce un ulteriore consiglio, rivolto soprattutto a quanti (quasi tutti) producono file digitali che rimangono nei PC o negli HD, anche a quanti realizzano audiovisivi, dove a causa della dinamica comunicativa adottata, un’immagine sembra voler subito cancellare il ricordo di quella che l’ha preceduta…: stampiamo le nostre immagini, almeno quelle più significative!
Potremo meglio verificare come – nel tempo – la nostra palestra si è arricchita di nuovi attrezzi che hanno contribuito al nostro “allenamento” e alla nostra buona forma psico/fisica (oltre che ad arricchire nostro archivio storico di ricordi).

E se ci accorgeremo di aver saltato qualche esercizio per pigrizia, ci sentiremo spronati a riprenderlo con piacere.

Per ottimizzare la proposta, ho pubblicato questa mia riflessione anche sulle pagine del Notiziario n°74 del DiAF (Dipartimento AV della FIAF), che potete visionare e scaricare qui: http://www.fiaf.net/diaf/wp-content/uploads/2016/01/NotiziarioAV74.pdf  e sul Grandangolo, notiziario del Gruppo Fotografico S.Paolo di Rho di cui faccio parte: http://www.fotoclubsanpaolo.it/Grandangolo/2016/G9-16web.pdf