MIA Photo Fair è una fiera internazionale dedicata alla fotografia d’arte, che quest’anno è giunta alla sua 8ª edizione, ospitata negli spazi di The Mall a Milano, nel quartiere di Porta Nuova (P.zza Lina Bo Bardi) nel mese di marzo.
Il pubblico di MIA Photo Fair è composto da collezionisti e amanti dell’arte e della fotografia in generale, è un pubblico ampio ed al contempo sofisticato, regolato da dinamiche non facili da decifrare e da prevedere. Anche quest’anno c’è stata forte affluenza di pubblico: 25.000 presenze in 4 giorni espositivi…!
A testimonianza di un crescente interesse, direi di una interiore necessità verso una personale crescita culturale, che va ben oltre le tendenze e le proposte tecniche che il mercato delle case costruttrici di fotocamere e affini ci propina con insistenza quotidiana attraverso ogni canale di propaganda.

Anche io ho visitato il salone (avrei voluto addirittura esporre alcune mie proposte, ma i costi e il mio progetto non ancora ben definito, non me l’hanno permesso… forse prossimamente…?), e ho prestato particolare attenzione a quelle opere in cui era manifesto un desiderio di tridimensionalità, non fosse che da più di un anno sto proprio lavorando in questo senso, con le mie “Photocellule” (https://www.turcatowalter.it/photocellule/).
E mi sono un po’ stupito di trovarne in buon numero, al fianco dei grandi “classici” degli autori più conosciuti. Forse il desiderio di “stupire” (che però si esaurisce ben presto, se l’opera non è supportata anche da una solida ricerca di contenuti), forse – più auspicabile – il desiderio di trovare un originale e sincero linguaggio che ridisegni e ridefinisca il proprio stile autoriale, il solo che possa soddisfare una reale, profonda, tensione creativa.

Uno dei progetti selezionati e premiati, “Joie de vivre” di Letizia Cariello,  si componeva di immagini vintage riprodotte e opportunamente inserite in strutture formate per metà da una cornice e per metà da un cassettino che sembrava proprio uscire dalla cornice. Le immagini erano poi “contaminate” da interventi manuali (ricami a filo rosso, smalto rosso per unghie, inserti di spine di rose…). Il tutto a giustificare una ricerca di memorie passate, reintepretate e personalizzate per una fruizione attuale.

Comune in tutte queste opere, la necessità di concedere loro il necessario tempo di progettazione (di “pensiero”), di realizzazione e di lettura: e mi pare questo un approccio che contribuisce ad evidenziare una possibile differenza tra la fotografia d’arte e la fotografia “usa e getta” che si esaurisce in qualche “like”. Detto questo, ovviamente, non si vuole denigrare nessun tipo di impegno fotografico, ma solo ribadire l’importanza di una visione sempre aperta e curiosa verso ogni proposta… un salone di questo tipo merita una visita anche da parte di chi pensa di “non esserne all’altezza” o di chi ha paura di “non capire certe opere”, consapevoli che ne usciremo comunque con qualche stimolo in più e qualche nuova idea da sperimentare.

Come precedentemente accennato, io stesso sto realizzando, da un anno a questa parte, alcune opere particolari, ottenute stampando digitalmente le mie fotografie, direttamente su tavole di legno di abete, successivamente scomposte e ricomposte – parzialmente o totalmente – con diverse tecniche, su fogli di compensato di pioppo che possono essere neutri, colorati o a loro volta stampati con immagini che interagiscono.

Gli elaborati finali sono quindi opere uniche, che per la loro visione richiedono anche una diversa dinamica di approccio: in merito alla distanza di visualizzazione, alla fonte di luce in cui sono ambientate, ma anche riguardo la ricerca visiva dei vari dettagli che le compongono e la matericità con cui si esprimono.

La “fotocellula” è un dispositivo che – quando esposto ad una fonte luminosa – provoca una successiva azione meccanica o elettronica… le mie “Photocellule” sono dispositivi visivi che – dall’unione materica del legno con quella virtuale dell’immagine, vogliono attirare l’osservatore in una sosta silenziosa che stimoli una reazione emozionale, sentimentale, in chi di fatto le attiva con la luce del proprio sguardo.
È ovviamente ricercato anche il riferimento alla cellulosa, fibra del legno che con la fotografia ha da sempre un naturale, indispensabile legame nei tradizionali supporti cartacei.
Il legno però non è più solo supporto, ma parte fondamentale del pensiero, del messaggio che voglio trasmettere: le sue venature infatti sono parte integrante delle immagini, e la loro grafica, il loro movimento ripropone quel fluire del tempo che la fotografia – per contro – aveva fermato, favorendo così una rilettura delle immagini in un’armonia narrativa più coinvolgente.
Il profumo stesso del legno, e le distorsioni cui è soggetto lo rendono elemento sempre “vivo”, che favorisce un approccio accogliente e un’empatica condivisione di sentimento, in un dialogo ricco di significati.
È una ricerca appassionante, che riconsidera innanzitutto il piacere di fotografare con calma, il piacere di stampare (su carta o altro supporto) e confluisce in un naturale desiderio di “esporre”, di mostrare – in ambiti pubblici o privati – il frutto della propria visione.

Sapere che una mia opera è parte integrante dell’arredamento di una casa, in un ambito famigliare o di lavoro (quale ad es. un ufficio), è responsabilità molto gratificante, perché il mio pensiero diventa parte attiva nell’intimità di qualcuno: anche per questo, dopo 20 anni dedicati prevalentemente alla ricerca audiovisiva, il mio impegno è oggi maggiormente rivolto alla fotografia “tradizionale” o a progetti di portfolio, e il media “musica” è sostituito dal media “materia”.

Questa “prefazione”, mi dà l’occasione per sottolineare come – a mio avviso – anche il settore dedicato agli audiovisivi avrebbe il bisogno, direi quasi l’improrogabile necessità di introdurre – o anche solo ricercare – elementi “tridimensionali” che in qualche modo rivitalizzino questo canale di comunicazione, rendendolo davvero più “dinamico” ed integrato ai linguaggi correntemente parlati.

Troppo spesso parliamo di dinamica comunicativa ma poi torniamo a stilemi e impianti che di dinamico non hanno proprio nulla…: quando alcuni anni orsono abbiamo iniziato a proporre – con non poche difficoltà – la possibilità di utilizzare anche spezzoni video da integrare nelle nostre programmazioni, avremmo dovuto ricercarne le specificità e non una modalità con cui sostituire solo l’intercalare delle singole immagini: in questo senso – ad es. – la classica “transizione” tra un’immagine e l’altra, se mixata ad un brevissimo spezzone video avrebbe potuto acquisire quel valore aggiunto (…tridimensionale…?) che avrebbe maggiormente stimolato l’attenzione, la curiosità e la fantasia creativa sia degli autori che dei fruitori della proiezione.

Effetti video (in movimento) grafici, cromatici o anche solo luminosi possono alleggerire le transizioni da quella ormai consolidata staticità – dinamica e visiva – che ingabbia anche le nostre migliori intenzioni e appiattisce un prodotto che già di per sé è molto virtuale, volatile, non ha consistenza materica, che si affida solo al ricordo, che quindi deve essere opportunamente stimolato.

E tali effetti si possono facilmente realizzare con le nostre reflex, in modalità di ripresa video (se non abbiamo una videocamera), oppure sono facilmente reperibili su web in appositi portali.

Questo nostro “desiderio di mostrare” agli altri il nostro pensiero (e mi riallaccio a quanto detto precedentemente), deve passare attraverso una serie di filtri, di “setacci” che ci educhino a non tralasciare nessuna attenzione, nessuna cura nel nostro impegno, prestando ascolto alle richieste dell’auditorium, ma primariamente alle richieste che ci vengono dalla nostra evoluzione artistico/culturale.

Diamo la giusta attenzione al tempo di visione di un’immagine: ricordiamoci che a fronte della democratica proposta di un’immagine in parete che si fa osservare per un tempo variabile, a nostra discrezione, quella (o quelle in serie) proiettate su schermo – viceversa – hanno già insita una loro temporizzazione, che potrebbe non coincidere con le attese degli spettatori…

Se il nostro fine ultimo è far vedere le nostre fotografie, nessuno ci obbliga a fare un audiovisivo… e tanto meno dobbiamo ricorrere ad effetti spettacolari o montaggi complessi (che voi umani non avreste mai pensato…), che rischiano di rendere incomprensibile la nostra proposta e il nostro pensiero. Se però scegliamo questa forma di comunicazione, impariamone tutte le regole grammaticali, e le varie possibilità espressive e applichiamole con la nostra sensibilità.

(Articolo pubblicato anche sul Notiziario n°80 del DiAF – Dipartimento Audiovisivi FIAF, visionabile e scaricabile a questo LINK)